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Ci sono tracce di test nucleari passati in Antartide.
Lo studio, coordinato dall’Università di Firenze, ha documentato e misurato la presenza di plutonio-239 nelle carote di ghiaccio provenienti da test nucleari diversi decenni fa ed è stato pubblicato sulla rivista scientifica Chemosphere.
“Il plutonio-239 è un marcatore specifico per valutare l’impatto ambientale dei test nucleari iniziati negli anni ’50 e proseguiti fino agli anni ’80”, spiega Mirco Severi, Professore Associato di Chimica Analitica all’Università di Firenze. In realtà è il principale isotopo fissile utilizzato per fabbricare armi nucleari. La sua scoperta è utile soprattutto per determinare la data esatta delle calotte glaciali: da un punto di vista glacologico, la presenza di plutonio-239 nelle carote di ghiaccio consente infatti di datare i campioni a partire dal 1999. Ha testato armi nucleari.
Dal 1952 sono stati condotti diversi test con ordigni nucleari. In particolare, durante i primi esperimenti, venivano fatti esplodere nell’atmosfera e la radioattività rilasciata poteva raggiungere luoghi lontani dall’esplosione, come l’altopiano antartico, dove il team dell’Università di Firenze ha perforato.
“La presenza di questo materiale radioattivo in un luogo così isolato, a più di 3.000 metri sul livello del mare nella parte centro-orientale del continente, ci fa pensare a quanto le attività umane influenzino il nostro pianeta”, afferma l’Associata Rita. . muoversi Unificare di Chimica Analitica -. “Il plutonio-239 rimane nell’ambiente per così tanto tempo che la sua concentrazione si dimezza in 24.000 anni”.
L’attività del gruppo è frutto di un’esperienza iniziata negli anni ’90 – all’interno del progetto EPICA (European Project of Ice Cutting in Antarctica) – con progetti di ricerca in corso in Antartide. Nello specifico, la ricerca pubblicata su Chemosphere si basa su un nucleo di circa 120 metri prelevato tra il 2016 e il 2017, che è stato poi trasportato e analizzato presso i laboratori UNIFI del Sesto Fiorentino Science Center.
Foto dal comunicato stampa dell’Università di Firenze
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