“This is not a rebel song”, annuncia Bono sventolando una bandiera bianca sulle note di Sunday Bloody Sunday. Quale verso non c’è più in quel brano, cosa si nasconde dietro al simbolo di Live Aid che sta sullo sfondo, perché la bandiera non ha colori e, soprattutto, per quale motivo quella non può definirsi una “canzone ribelle” lo spiega Harry Browne, autore di un pamphlet d’impronta smaccatamente irish e radicale ma con un lavoro di documentazione valido ad ogni latitudine, geografica e politica.

Se lo chiedessimo a Bono probabilmente descriverebbe se stesso come “un uomo di pace”, o perlomeno contrario ad ogni conflitto. Secondo la tua tesi invece, è qualcuno che i conflitti – politici e sociali, tra nazioni ricche e povere e tra ricchi e poveri della stessa nazione – li nega, così da non dover prendere posizione….
Non sono certo di come Bono descriverebbe se stesso in relazione al “conflitto”, ma è giusto dire che è ideologicamente portato a negarli e che con questi rifiuta di comprendere anche la realtà sociale. Al tempo stesso una posizione la prende, ed è sempre dalla parte dello status quo. Certe sue affermazioni possono indicare un blando antagonismo contro alcuni aspetti del sistema capitalistico – l’avidità, per esempio – ma ogni volta che gliene si presenterà mezza occasione darà il suo sostegno a tutti gli uomini d’affari e politici che a quel sistema appartengono.

Non è sempre la solita scusa di chi sostiene che per cambiare il sistema sia necessario “lavorare dall’interno”?
Bono dice di essere vicino al potere ma non accondiscendente. È una distinzione che non fa la differenza. L’unica giustificazione logica per questo comportamento è precisamente quella che dici tu, che per essere influente sui potenti deve starci a contatto. Ma è una formula basata su un sostanziale fraintendimento del proprio ruolo. Per quel che interessa Tony Blair, George Bush o le multinazionali come la Monsanto, Bono non si trova lì per cambiare il sistema, ma per dare l’illusione che il sistema sia pronto a cambiare.

So che hai dovuto affrontare qualche reazione anche violenta dai media che ti hanno recensito. Come l’ha presa il diretto interessato? Si è sollevato un po’ di dibattito su questa “filantropia da miliardari”?
Credo proprio di sì, nonostante non sia mai stato pronunciato pubblicamente nè il mio nome né il titolo del libro. In parte il testo prende piede da un’ostilità nei confronti del leader degli U2 che in Irlanda già esisteva – negli ultimi giorni, dopo il discorso al Partito Popolare Europeo a Dublino, quest’avversione è tornata ad alzarsi ferocemente. La mia speranza era estendere il discorso con un’analisi più di contenuto. Bono in persona ha poi rilasciato un paio di interviste che suggeriscono una certa famigliarità con le mie argomentazioni e anch’io sono stato ospite di radio e tv, il che mi ha concesso di ampliare la questione senza ridurmi a discutere sul solo personaggio pubblico. Naturalmente non sono l’unico a porre certe domande sulla filantropia del capitale, una pratica che continua a crescere proprio come continuano a crescere le diseguaglianze.

Hai scritto anche della partnership fra U2 e Apple per il lancio dell’iPod. Il confronto tra Bono e Steve Jobs mette in campo due delle figure più rappresentative della popular culture contemporanea e anche due degli individui più abili a far dimenticare al mondo qual è la loro prima occupazione: badare ai propri affari.
I due hanno intrattenuto una collaborazione importante, Jobs ha persino venduto a Bono un appartamento a Manhattan. Sono due facce dello stesso fenomeno neoliberista, quello che lo studioso Alan Finlayson ha chiamato “Bonoism”: costruire l’immagine di un mondo elitario generico dove la creatività crea grandi profitti e le entrate vanno a ricompensare geni di quelli caratura. Thomas Frank ha scritto un bell’articolo su salon.com (Ad Absurdum and the conquest of cool: canned flattery of Corporate America, ndr) per dimostrare che, quando è chiamata a descrivere come funziona il mondo reale, questa si rivela una menzogna per la gran parte delle volte. Ma è una menzogna utile, che copre l’aspetto più noto dello sfruttamento – il modo in cui Apple tratta i lavoratori cinesi o quello in cui gli U2 evadono le tasse irlandesi – con uno strato di legittimazione artistica.

Il fascino di (RED), il “brand solidale” studiato da Bono in partnership con i grandi marchi per devolvere una parte dei proventi alla causa africana, sta proprio nel farci credere che è possibile cambiare il mondo senza cambiare il negozio in cui facciamo compere. Un pensiero conservatore?
Certo che sì. Credo che persino le migliori forme di attivismo basate sul consumo – il boicottaggio, per esempio, o gli acquisti dalle cooperative di lavoratori – corrano il rischio di propagare un concetto terribilmente limitato delle capacità d’impatto sociale della gente. La (RED) di Bono ovviamente è molto peggio, perché veniamo incoraggiati ad ignorare i fattori di ecosistema sociale nascosti dietro ad un oggetto di consumo – le condizioni in cui vengono ricavati i suoi ingredienti, quelle di produzione, distribuzione e vendita – e a vederlo invece come un veicolo per fare della carità. In altre parole, un’alienazione totale.

Nel 2004, durante il discorso al Labour Party, Bono aveva paragonato Gordon Brown e Tony Blair a John Lennon e Paul McCartney. Quello stesso discorso viene citato come “il più grande spot per la politica” in un libro del 2006, recentemente ristampato da Giunti e intitolato Tra De Gasperi e gli U2. I trentenni e il futuro. Il nome dell’autore è Matteo Renzi…
Non c’è dubbio che Bono a livello politico abbia avuto importanza e influenza, e non in senso buono. Di sicuro c’è stata una convergenza nello stile della politica con il marketing del pop a livelli professionali. Un processo che si è verificato da entrambe le parti che ha avuto un ruolo nell’evoluzione di un ordine politico neoliberista e filocorporativo. Per questo nel ventunesimo secolo pop e politica non possono essere disgiunti, né uno può essere interpretato come la causa o l’effetto dell’altro. Di istinto direi che sulla popular culture, rock’n’roll compreso, i risultati di questo processo siano stati più deleteri che non sulla politica, ma forse è solo la mia età che si fa sentire.

Bisogna rassegnarsi, però. I più influenti tra scrittori, attori e musicisti di solito sono generalmente ricchi e famosi, la tipica elìte da Uno per Cento. C’è anche una sola possibilità che qualcuno di loro usi il megafono a propria disposizione per fare qualcosa di realmente utile per la società tutta?
Sì, di sicuro la possibilità c’è. Non sono un marxista tanto letterale da credere che una singola persona abbiente non possa agire in maniera contraria agli interessi della propria classe. L’attore e comico inglese Russell Brand ha dato mostra della sua abilità nel formulare una critica vera e interessante contro l’ordine vigente. L’attore americano Martin Sheen supporta l’attivismo di base in ogni modo, incluso quello di prendere l’attenzione mediatica che si concentra su di lui e dirottarla verso gli “attori sociali” più importanti e progressisti. L’industria musicale ha creato molte celebrità le cui vite ed espressioni artistiche ci hanno guidato verso un mondo migliore: per esempio, Paul Robeson, Gil Scott Heron, Christy Moore, Fela Kuti, Joe Strummer, Public Enemy, Ani DiFranco e, in qualche caso, persino Bruce Springsteen.