L.D. Trockij attore e storico del 1917. Il libro fu scritto da Trockij durante l’esilio nell’isoletta turca di Prinkipo fra il 1929 e il 1932, subito dopo il completamento della Mia vita che, in forma autobiografica, inquadrava il 1917 fra gli anni della formazione e della prima rivoluzione del 1905, di cui era stato indiscusso protagonista, e gli anni della vittoriosa guerra civile e delle lotte interne al Partito bolscevico, da cui era uscito sconfitto ed espulso. Scrivendo un resoconto in terza persona del ciclo febbraio-ottobre 1917 Trockij è dunque non solo vichianamente storico e (co)autore di un evento ma anche e simultaneamente un vincitore e un vinto. Redige la storia dei vincitori dell’Ottobre e della guerra civile; sta nella storia dei vinti, ora che la “vecchia guardia” è stata esautorata da Stalin e ben presto votata allo sterminio fisico. Di qui la tonalità indecifrabile del narratore: consapevole di aver perso la partita e insieme sicuro fino all’arroganza nel giudizio sui vinti e nell’esaltazione (polemica) di Lenin contro la costruzione del mito staliniano, fino al punto da autocensurare l’assidua opera di mediazione fra soviet e Partito bolscevico e fra partiti rivoluzionari che l’autore stesso svolse nell’autunno 1917. Egli resta in qualche modo sospeso fra il determinismo delle leggi storiche e l’attivismo delle masse, da un lato, e la consapevolezza dell’azzardo insurrezionale, dall’altro, del ruolo decisivo della leadership, della riuscita quasi miracolosa della forzatura di Lenin, senza di cui (e senza il contributo dello stesso Trockij, in sottinteso) la rivoluzione sarebbe fallita – come in effetti rischia di fallire negli anni Trenta per la degenerazione imputabile a Stalin. La stessa valutazione dell’insostituibilità di Lenin è spinta al massimo per controbilanciare il nascente culto del “meraviglioso georgiano”.

Storia delle masse in movimento, innanzi tutto – malgrado il peso del Partito e di alcuni suoi leader. Già Isaac Deutscher, il maggiore biografo di Lev Davidovič, osservava che l’autore le metteva in scena con lo stesso metodo dei film di Ėjzenštejn: sceglie alcuni individui tra la folla, li mostra in un momento di apatia o di eccitazione e fa loro esprimere lo stato d’animo con una frase o con un gesto, poi ci mostra di nuovo la folla, una folla densa e accalorata, percorsa da un’ondata di emozione o lanciata all’attacco; e riconosciamo subito l’emozione o l’atto adombrato dal gesto individuale». Sono folle spinte dalla passione, come quelle di Carlyle, ma che anche sono coscienti e riflettono. Non sono le masse inquadrate ed eterodirette dei regimi totalitari e neppure si contrappongono nella loro spontaneità ai dirigenti (come nella storia della rivoluzione francese di Kropotkin) ma si combinano con loro dialetticamente. Trockij stesso, eccezionale oratore e trascinatore, si sente a volte un “ventriloquo delle masse” che ne parla l’inconscio, «con un procedimento esattamente inverso», osserva nella bella introduzione E. Traverso, «rispetto al “plagio” delle masse tipico del potere carismatico». Il “profeta armato” esprime più che produrre un popolo e certo lo organizza tatticamente per la difesa e per l’attacco, sulla base di una strategia non dottrinaria (quale avrebbe voluto la teoria dello sviluppo per tappe del socialismo) però portata dall’alto: quella volta in sintonia con i bisogni delle masse, ma non avverrà sempre così e le esigenze della guerra civile non faciliteranno la dialettica fra alto e basso. A un certo punto gli ammonimenti di Julius Martov (che ebbe torto nell’Ottobre) sulla tonalità “militare” del bolscevismo presenteranno il conto.

Scrive Trockij che «senza un organismo direttivo l’energia delle masse si disperderebbe come il vapore fuori del cilindro del pistone. Nondimeno la forza motrice non è il pistone né il cilindro, ma il vapore». Metafora splendida quanto datata, che scolpisce la natura di una rivoluzione nell’ambito della dinamica fordista e proprio per questo dovrebbe essere modificata con l’avvento di diverse modalità di produzione, organizzazione e composizione di classe. Resta invece (e ancor più) valido l’approccio “aleatorio” che individua in scelte contingenti e al limite in persone l’elemento decisivo di inclinazione della congiuntura in un senso o nell’altro, proprio nella misura in cui si è persa fiducia nell’ineluttabilità delle tendenze storiche oggettive. Senza l’aprile di Lenin il gruppo dirigente bolscevico non avrebbe saputo indirizzare il modo spontaneo delle masse verso la conquista del potere – poi discutiamo se questo è stato un bene o un male, comunque non era un decorso obbligato.

Traverso insiste correttamente sul profondo “occidentalismo” di Trockij e la sua distanza sia dal messianismo contadino sia (negli anni successivi alla guerra civile e perfino dopo la perdita del potere) sulle sofferenze delle campagne. Il paradigma rivoluzionario che presenta è allo stesso tempo l’unico che abbia funzionato – con riprese e modifiche anche in altre fasi storiche del Novecento – e un qualcosa di improponibile nel nuovo millennio, senza aver fatto i conti con i limiti e i punti ciechi del passato. Per paradosso – conclude Traverso rilanciando gli argomenti della sua Malinconia di sinistra – il controllo operaio sarebbe oggi più facile che nel 1917 russo o anche tedesco e inglese. I presupposti del socialismo ci stanno tutti, ma è impensabile sconfiggere il capitalismo sul piano militare: «durante il Novecento ci siamo abituati a considerare vittorie e sconfitte come scontri militari: le rivoluzioni conquistavano il potere con le armi, le disfatte si traducevano in colpi di stato e dittature fasciste. La sconfitta che abbiamo subito alla svolta del XXI secolo, tuttavia, va misurata con criteri diversi. Il capitalismo ha vinto perché è riuscito a plasmare le nostre vite e il nostro habitus mentale, perché è riuscito a imporsi come modello antropologico, come “norma di vita” in senso weberiano». Infatti i movimenti “sovversivi” dell’oggi non dimostrano interesse per le discussioni strategiche del passato (organizzazione, alleanze, rappresentanza, leadership) quanto per la sperimentazione di nuove forme di vita comune alternative alla mercificazione dei rapporti sociali.

Il prezzo di questo nuovo atteggiamento è la perdita di memoria della continuità storica e la diffidenza verso le mediazioni politiche. Il lutto per le sconfitte del Novecento non è stato elaborato e forse nelle condizioni attuali l’esperienza storica più prossima sembrerebbe quella del federalismo della I Internazionale, compresa la Comune del 1871 ma non come prefigurazione dell’Ottobre sovietista. Su questo Trockij sarebbe stato poco d’accordo con Traverso e lo stesso introduttore riconosce che nelle fasi di acuto conflitto la questione del potere è ineludibile e lo spirito libertario tocca i suoi limiti: il bagno di sangue alla caduta della Comune o la repressione che ha stroncato le primavere arabe insegnano. Anche la problematica della leadership e dei movimenti leaderless è lungi dall’essere chiara. La rilettura della Rivoluzione russa continua a porci interrogativi irrisolti.