Si possono problematizzare alcuni passaggi della storia della rivoluzione cubana senza cadere nell’accusa di «fare il gioco del nemico»? La risposta è ovviamente affermativa. Pur essendo l’esperimento cubano ancora in corso, su alcune questioni c’è ormai la giusta distanza temporale per riconsiderare episodi e scelte sia dal punto di vista politico, sia da quello analitico. È per esempio passato quasi mezzo secolo da quando Ernesto Che Guevara lasciò Cuba nel marzo 1965 per andare prima in Africa e poi in Bolivia (tornò sull’isola in incognito per un breve periodo per preparare l’infausta spedizione boliviana). Dalla caduta del Muro di Berlino, altro esempio ancora, è passato quasi un quarto di secolo, un tempo sufficiente per valutare analisi e politiche messe in campo a L’Avana per resistere al traumatico disfacimento del «socialismo reale». Se poi a compiere la ricostruzione di biografie e scelte è uno storico come Antonio Moscato (la sua cattedra di Storia del movimento operaio è da tanti anni a Lecce), sempre impegnato politicamente in prima fila, il risultato non può che essere di grande utilità per tutti coloro che seguono le vicende cubane e dell’America Latina.
Fidel e il Che (edizioni Alegre, pp. 190, euro 14,00) non delude le aspettative. Moscato espone le sue tesi senza schematismi. Nell’introduzione ricorda che la propria passione per la ricerca intorno a Guevara nasce dalla precoce analisi fatta da quest’ultimo sulle incongruenze del modello sovietico. A Castro riconosce di aver tentato intorno al 1985, proprio in coincidenza con l’ascesa di Mikhail Gorbaciov alla segreteria del Pcus, di staccarsi da Mosca cercando di ritrovare una autonoma via di transizione al socialismo basandosi sugli scritti politici ed economici del Che (troppo a lungo però conservati nei cassetti e finalmente resi pubblici in anni recenti). Annota, a un certo punto, l’autore: «Fidel e il Che, pur gravati da impegni pesantissimi, cercavano quando possibile di trovare una mezz’ora per mangiare insieme, l’unico momento per scambiarsi informazioni e commenti. Solo loro due: dopo la partenza del Che, Fidel non lo ha fatto con nessun altro, compreso Raúl». Non è così banale l’osservazione di Moscato. Viene alla mente Il Fidel che io conosco scritto da Gabriel García Marquez, il ritratto di un Castro che con il passare del tempo sopravvissuto ai suoi principali collaboratori della Sierra Maestra fa tutto da solo privo di interlocutori in grado di farsi ascoltare.
Moscato rifugge dalle tesi propagandistiche sull’addio del Che a L’Avana. Ricorda che Guevara ha avuto sempre parole di apprezzamento per Castro e chi volesse battere il tasto delle divergenze tra i due leader non può che tenerne conto. Scrive l’autore: «Tenterò di presentare alcune ipotesi, cominciando tuttavia a sgomberare il campo da una leggenda. Nel 1965 non c’erano divergenze sostanziali tra il Che e Fidel». C’erano certo differenze di formazione culturale e di stile di lavoro. Moscato ricorda a mo’ di esempio che quando Guevara, dal suo incarico di ministro dell’Industria, apre il confronto sulle politiche economiche da seguire nella fase di transizione non trova un antagonista in Castro e neppure un sostegno («probabilmente solo perché non ne comprendeva completamente le implicazioni»).
A suffragio dell’idea sulla non esistenza di divergenze insanabili, l’autore ricorda i tentativi di Fidel di proseguire le politiche economiche indicate da Guevara fino al 1970 (la campagna per la «zafra» che avrebbe dovuto raggiungere 10 milioni di tonnellate) combattendo contemporaneamente gli eccessi di filosovietismo (esemplare il caso nel 1968 dello scontro con la «microfrazione» capeggiata da Aníbal Escalante). Da qui il seguente giudizio: «Castro ha tentato di seguire le tracce del Che senza riuscirci». Sul perché non ci sia riuscito il dibattito resta aperto.
Moscato si è convinto, sulla base delle testimonianze di alcuni collaboratori di Guevara a Cuba, tra cui Orlando Borrego, che l’idea di andare ad aiutare altri processi rivoluzionari – prima in Africa (lo stesso Che ne ammise il totale fallimento) e poi in America Latina – fosse maturata in parte per un eccesso di autocritica. Il Che era stato il primo a importare a L’Avana tecnici provenienti dai paesi dell’Est (Guevara modifica la sua iniziale posizione acritica sull’Urss e i suoi modelli economici mentre li mette in pratica come ministro dell’Industria). Da qui un’altra tesi di Moscato: Guevara aveva compreso che era inconcepibile la costruzione del «socialismo in un paese solo» e che rompere l’isolamento di Cuba e Vietnam in quella fase era assolutamente necessario.
Ipotesi finale: la partenza di Guevara da Cuba è stata consensuale con Fidel, soprattutto dopo che il Che aveva tenuto un discorso fortemente critico nei confronti di Mosca nel Secondo seminario afroasiatico di Algeri e la sua permanenza a L’Avana non era gradita a Mosca.
Nel libro seguono spunti per una ricostruzione dell’esperienza del Che in Congo e in Bolivia, oltre all’analisi della politica cubana dopo la morte di Guevara. Moscato analizza pure il 1985, quando Castro presiede il Movimento dei non allineati e pone – con grande preveggenza politica – il tema del debito estero impagabile dei paesi del Terzo mondo («la sua ultima grande battaglia di risonanza mondiale»). Gli appunti analitici dell’autore arrivano fino ai giorni nostri: la visita di due Papi a Cuba, le politiche del «periodo especial», l’America Latina in trasformazione con le presidenze di Evo Morales in Bolivia e Hugo Chávez in Venezuela (in appendice c’è un testo dove si analizzano in parallelo le vite di Fidel e Chávez che dopo la morte del leader venezuelano acquista ulteriore valore documentario).
Nelle pagine di questo libro si ricordano inoltre l’inspiegabile ondata di arresti del 2003 a Cuba subito dopo la storica visita dell’ex presidente statunitense Jimmy Carter e i misteriosi allontanamenti dalle stanze del potere di Carlos Aldana, Roberto Robaina, Felipe Pérez Roque e Carlos Lage che precedono e seguono il definitivo passaggio di consegne da parte di Fidel al fratello Raúl a causa della malattia che lo colpisce nel 2006.
Quale ipotesi, infine, sul futuro di Cuba? Moscato sceglie quella di una sorta di «uscita a sinistra dal castrismo». Lo fa poggiando la sua analisi sulla sinistra guevarista presente sull’isola che «ha lottato contro l’emarginazione, la rassegnazione, la tentazione della fuga, ma ha rifiutato al tempo stesso l’assimilazione alla casta burocratica» e che può recuperare il lascito delle politiche attuate da Fidel Castro nei primi dieci anni della rivoluzione. In questo auspicio si ha l’impressione che prevalga più l’ottimismo del militante che il rigore dello storico. Ma chi ha seguito con passione la rivoluzione cubana in tutte le sue fasi non può che augurarsi – come Moscato – un futuro dove macerie o guerre civili non prevalgano e siano sempre i cubani a scrivere la loro storia.